Espressioni come «scusate», «perdonatemi» e «mi dispiace», che ora sono usate spesso alla leggera e inutilmente, non esistono nella lingua Lakota. Se per sbaglio qualcuno feriva o creava disturbo a qualcun altro, diceva la parola wanunhecun, «errore». Questo era sufficiente per indicare che non intendeva essere scortese e che ciò che era accaduto era un incidente.
I nostri giovani, allevati in base alle vecchie regole di cortesia, non avevano l'abitudine oggi in voga di parlare senza sosta e tutti insieme. Questo sarebbe stato non solo maleducato ma anche sciocco; perché la sicurezza di sé, virtù sociale tanto ammirata, non può essere accompagnata dall'agitazione. Le pause erano rispettate educatamente, e non provocavano nessun disagio o imbarazzo.
Parlando a dei bambini, il vecchio Lakota posava una mano per terra e spiegava: «Sediamo in grembo a nostra Madre. Come tutti gli altri esseri viventi, veniamo da lei. Presto ce ne andremo, ma il luogo dove ci troviamo ora resterà per sempre». Così anche noi imparavamo a sedere o coricarci per terra e a prendere coscienza della vita intorno a noi nelle sue molteplici forme.
A volte noi ragazzi sedevamo immobili e guardavamo le rondini, le minuscole formiche o qualche animaletto che si affaccendava, e riflettevamo sulla sua ingegnosità e ingenuità; oppure ci sdraiavamo sulla schiena e studiavamo a lungo il cielo, e quando apparivano le stelle cercavamo di costruire delle forme con le varie costellazioni.
Tutto era dotato di personalità, sebbene in forma diversa dalla nostra. La conoscenza era insita in tutte le cose. Il mondo era una biblioteca e i suoi libri erano le pietre, le foglie, l'erba, i ruscelli, gli uccelli e gli animali che condividevano con noi le tempeste e le benedizioni della terra. Imparavamo a fare ciò che solo lo studente della natura impara, cioè a coglierne la bellezza. Non maledivamo mai i temporali, i venti sferzanti, il gelo pungente o la neve. Così facendo avremmo sottolineato la futilità umana, quindi, qualunque cosa accadesse, ci adattavamo, compiendo sforzi e impiegando energie supplementari se necessario, ma senza lamentarci.
Neppure il fulmine ci minacciava, perché quando si avvicinavano troppo, madri e nonne in ogni tipi mettevano sulle braci foglie di cedro, e la loro magia teneva alla larga il pericolo. I giorni luminosi e i giorni bui erano entrambi espressione del Grande Mistero, e gli indiani amavano essere vicini alla Grande Santità.
L'osservazione aveva la certezza di essere ricompensata. L'interesse, la meraviglia, l'ammirazione crescevano, e si apprezzava il fatto che la vita non si riducesse alla semplice manifestazione umana; si esprimeva in una grande varietà di forme.
Questa comprensione arricchiva la vita dei Lakota. L'esistenza era vivace e vibrante; nulla era casuale e banale. L'indiano viveva – viveva in ogni senso del termine – dal primo all'ultimo respiro.





Capo Luther Orso in Piedi
Sioux Oglala