Accogliamo il dolore e torniamo a vivere
Anche il dolore più grande dipende da un modo sbagliato di guardare la vita. Ce lo spiega con essenzialità Osho: "Di solito, si pensa che la morte arrivi al termine della vita, che la morte sia nemica della vita; non lo è; ma se la ritenete tale, significa che non siete riusciti a conoscere la vita. La morte e la vita sono due polarità della stessa energia, dello stesso fenomeno: l'alta e la bassa marea, il giorno e la notte, l'estate e l'inverno. Non sono opposte, non sono separate e neppure contrarie, bensì complementari. La morte non è la fine della vita: è il completamento di una esistenza, il 'crescendo' di una vita, l'apice, il finale. Quando avrete conosciuto la vita e il suo processo, allora capirete cos'è la morte. La morte è parte integrante e organica della vita, e ne è profondamente amica. Senza la morte, la vita non può esistere. La vita esiste grazie alla morte che ne crea lo sfondo. Difatti, la morte è un processo di rinnovamento e accade ogni istante".
Piaccia o no, qualsiasi cosa ci sia accaduta, anche se è morta la persona a noi più cara, una sola cosa ci spetta: vivere. Attribuire alla morte di una persona amata la nostra vita dolorosa è un alibi, un grande errore. Ci è morto un figlio? Accogliamo il dolore immenso che ci annienta e poi torniamo a vivere. Nella nostra felicità, attraverso di noi, il suo ricordo, che è un'energia intelligente, che è immagine e quindi seme, tornerà a vivere. Diventeremo il suo utero mentale ridandogli vita e calore. Al contrario noi trasformiamo il dolore in un'occasione per non vivere più, per ammalarci, per distruggere tutte le altre relazioni.
"E' morto mio figlio, che senso ha vivere?" Quanto orgoglio c'è in tutto questo! Come se qualcuno avesse scritto che siamo immortali e che i nostri cari sono eternamente legati a noi, in questa vita terrena. Sono illusioni queste, con cui abbiamo stordito il nostro cervello, che invece vorrebbe vivere, gioire, giocare, creare.
Dobbiamo essere grati all'esistenza così com'è, perché come dice Vimala Thakar: "Anche se può esserci dolore fisico, essere vivi è una benedizione [...*. L'offesa viene notata, la ferita è registrata, il dolore viene sperimentato, e forse si versano lacrime, ma subito dopo avete finito con quel dolore, la mente non se ne crea un precedente, non lo converte in rancore contro la vita e non lo porta con sè".
Non c'è bisogno di credere in nessun Dio per proteggerci dalla paura del dolore e della morte: dobbiamo solo stare con noi stessi, accogliendo tutto ciò che arriva, abbandonando ogni lamento, ogni definizione di sè, ogni fuga dalla vita.
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Diffidiamo dunque dei lamentosi che non capiscono che basterebbe saper accogliere i disagi che arrivano per poi vederli andare via e rinascere davvero. [...]
Spesso intendiamo la felicità come uno stato di gioia permanente. Ma questa è un'idea morta, statica, schematica della gioia, che è tutto il contrario. "Essere se stessi" significa accogliere in ogni istante qualsiasi stato d'animo giunga dal nostro interno, senza combatterlo, senza sentire il dovere bigotto di mandarlo via per assecondare un ideale malato di perfezione e di felicità.
Uppaluri Gopala Krishnamurti ammonisce: " Perché vi sentite infelici? Per quale motivo, prima di tutto? Perché vi sentite così a disagio? Perché avete un ideale. L'ideale è l'opposto di quello che è. [...] Voi pensate continuamente: 'Dovrei essere così, dovrei essere diverso, dovrei comportarmi in questo modo e non ci riesco'. Il pensiero ha creato l'opposto di quello che siete. Se il pensiero se ne va, anche l'opposto sparisce".
E poi non dobbiamo definire noi stessi. La domanda corretta che dovremmo porci è: "Sono felice in questo istante, adesso, così come sono, senza alcun progetto, con i dolori che la vita mi ha portato?" Solo allora la gioia verrà a trovarci e sarà immensa, perché saremo diventati (o saremmo quasi riusciti a essere) quell'intelligenza che fa fiorire la nostra vera natura.
Anche nel più immenso dolore, la gioia di vivere è presente in noi: la allontaniamo quando inseguiamo una definizione di felicità continua e artificiale. Qualsiasi cosa ci capiti, occorre ricordarsi che siamo vivi. Che quello che crediamo di essere, il nostro Io, è quasi sempre fatto di un mondo che non esiste più. Ciò che ci crea vive nel presente, nel buio, nel silenzio, come in un utero. Più ragioneremo utilizzando modelli esterni, più soffriremo.
Non diciamoci mai cosa siamo, o come siamo, non diamo definizioni del nostro carattere, delle nostre emozioni. perché sono tutte false. Mai ripetere frasi del tipo: "Devo fuggire da me stesso"... [...]
Non abbiamo bisogno degli hobby né di far passare il tempo. In ogni cosa che facciamo, ripetiamoci: "Io sono qui, pronto a tutto ciò che accade. Io sono qui".
La forza misteriosa
C'è un altro aspetto da prendere in considerazione quando qualcuno ci abbandona. All'inizio può insorgere un dolore immenso, che ci sovrasta, ci annichilisce, ci disintegra. Ma dopo qualche tempo, anche nelle situazioni più terribili, scatta in noi qualcosa di provvidenziale, una forza misteriosa che vuole trarci in salvo. Talvolta mi chiedo se non veniamo abbandonati proprio per incontrare quella forza, come se a lei interessasse rivoltare la nostra vita, stravolgerci, per farci incontrare proprio la nostra vera essenza, la nostra più profonda natura.
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A un certo punto, arriva inaspettatamente l'addio. Subentra uno stato di desolazione e un senso di sconfitta. Vediamo ciò come una disfatta. Io ho imparato invece che il dolore, qualora venga accolto, prepara il posto a forze sconosciute, a desideri, a pensieri nuovi che stanno nascendo.
Sembra che chi ci lascia sia l'attore, la causa della nostra rovina, ma non è così. Se la smettiamo di lamentarci, di criticarci per quello che è successo, se evitiamo di rimpiangere l'amore che non c'è più, tutto è possibile. Esiste un'intelligenza misteriosa nel nostro corpo che non ama le cose scontate, la routine, e che disdegna gli amori ordinati e ripetitivi.
"Un uomo che non è passato attraverso l'inferno delle passioni" scrive Jung, "non le ha mai superate: esse continuano a dimorare nella casa vicina, e in qualsiasi momento può guizzarne una fiamma che può dar fuoco alla sua stessa casa. Se rinunciamo a troppe cose, se ce le lasciamo indietro, e quasi le dimentichiamo, c'è il pericolo che ciò a cui abbiamo rinunciato o che ci siamo lasciati dietro le spalle, ritorni con raddoppiata violenza."
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E' necessario non opporsi al dolore, al senso di annichilimento, alla rabbia dell'abbandono. E' necessario imparare a lasciarsi andare a quel senso di vuoto che sempre più spesso viene a trovarci, a incalzare la nostra interiorità. Il vuoto è la sostanza della salvezza: è il simbolo della rigenerazione. Guai a combatterlo!
La guarigione si affaccia quando potremo verbalizzare frasi del tipo: "Mi sento sconosciuto a me stesso". "Non so più chi sono", "Non ho più certezze".
[...] Alla fine non si fugge dal dolore, e si sente che l'oblio non è un rifugio, ma un nuovo modo di essere. Via via nasceranno nuovi interessi nella vita. [...] Quando si accetta la trasformazione che la vita porta con l'abbandono, si potrà cominciare a camminare verso se stessi.
(Raffaele Morelli)